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L’origine procidana del codice della navigazione

by Pietro Spirito
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Giovedì 9 febbraio, alle ore 17, si presenta al Museo del Mare, in via di Pozzuoli 5, il libro di Alfonso Mignone su “Il progetto di codice marittimo del procidano Michele De Jorio”, pubblicato da Passerino Editore. Parteciperanno, oltre all’autore, Umberto Masucci, Presidente del Propeller Club nazionale, Andrea La Mattina, professore associato di diritto della navigazione, Raffaella Salvemini, dirigente di ricerca CNR-Ismed. Introdurrà i lavori Maria Antonietta Selvaggio, vicepresidente della Fondazione Thetys-Museo del Mare.

Alfonso Mignone ricostruisce la storia della transizione dall’ordinamento consuetudinario alla codificazione, in un diritto della navigazione che si intreccia con la disciplina del commercio. Con la crescita degli scambi internazionali, e con il peso che cominciava ad assumere la rete delle connessioni marittime, cominciava ad avvertirsi l’esigenza di dotarsi di un corpo di regole capace di assicurare certezza agli operatori del mercato.

La matrice originaria della legislazione marittima si trova nel Libre de Consolat de Mar di Barcellona, che risale al 1476, quasi alla vigilia della scoperta delle Americhe, evento destinato a modificare profondamente la struttura dell’economia mondiale determinando uno sviluppo verticale per la navigazione e per il commercio internazionale. Con la pace di Westfalia nel 1648 gli ordinamenti giuridici si articolano nel dualismo che ancora oggi caratterizza l’architettura del diritto, tra civil law e common law.

A breve distanza viene promulgato il primo codice della navigazione nel senso moderno del termine, con una struttura destinata a condizionare anche l’evoluzione successiva di questa branca del diritto: l’Ordonnance de Louis XIV. Il commercio diventa attività subordinata alla concessione del sovrano, in uno scenario caratterizzato dal protezionismo che proprio negli stessi anni viene teorizzato da Jean-Baptiste Colbert.

Insomma, nel processo di consolidamento degli Stati nazionali, il diritto del commercio e del mare costituisce uno dei pilastri per la disciplina dei rapporti economici e sociali. Anche per il Regno di Napoli questo pilastro comincia a formarsi nel corso del diciottesimo secolo.

Carlo III avverte chiaramente l’esigenza di dare ordine a questa parte così rilevante per la definizione della vita collettiva, soprattutto in una nazione che era circondata dal mare, ed affondava le radici della sua storia nelle abilità marittime. Nel 1739 decide di istituire il Supremo Magistrato del Commercio, nella cui giurisdizione rientrano anche le materie della navigazione e del diritto del mare.

Poi nel 1741, con la Prammatica X, Carlo, preannunciando la necessità di un codice marittimo, emana la sua regolazione De nautis et portibus. Pur non essendo un codice organico di disciplina marittima, sono delineati i principi fondamentali.

Così si esprime Carlo nella Lettera napoletana: “I nostri nobilissimi Regni di Napoli e di Sicilia, situati in sì vantaggiosa positura, essendo l’uno del tutto e l’altro da tre lati bagnati dal mare, possono per mezzo della navigazione facilmente comunicare ed estendere il traffico con qualunque Nazione, ma sforniti essendo dell’importantissima regola del navigare, ne viene sommo pregiudizio al commercia ed alla riputazione e gloria dello Stato”. Parole che continuano ad assumere ancora oggi, purtroppo.  una drammatica attualità.

Viene successivamente, per migliorare la consapevolezza degli operatori marittimi, l’esigenza di istituire scuole nautiche: a Napoli, Piano e Meta di Sorrento. Parallelamente, il Regno di Napoli, inizialmente sempre sotto l’impulso di Carlo III, stipula una rete di trattati internazionali bilaterali che disciplinano anche le regole marittime con l’Impero Ottomano, la Francia, la Gran Bretagna, le Province Unite, la Svezia.

Si arriva al Regno di Ferdinando IV di Borbone, che ritiene maturo il tempo per giungere alla formulazione di un codice della navigazione: per questo affida l’incarico al giurista procidano Michele De Jorio. Tra il 1779 ed il 1781 il lavoro viene completato. Si tratta di una opera monumentale: quattro tomi per un totale di 2411 pagine. Il lavoro è tripartito. secondo uno schema logico consolidato nelle esperienze giuridiche maturate. Vengono affrontate le questioni relative alle Persone, alla Cose ed alle Azioni.

Alla fine si tratta di una opera di erudizione e di dottrina, più che un codice vero e proprio. Ne viene fuori più una opera storica e giuridica, che alla fine resta incompiuta, in quanto poi il codice non viene approvato, peraltro seppellito dai tumulti e dalle rivoluzioni che caratterizzarono gli ultimi anni del diciottesimo secolo, anche nel Regno di Napoli.

Quando Ferdinando I di Borbone, sovrano delle Due Sicilie, torna a prendere possesso del trono cambiando il titolo a sé ed il nome al Regno, conferma il napoleonico Code de Commerce, che era stato intanto introdotto nella fase della supremazia francese.

Ma Michele De Jorio riesce a lasciare una sua traccia normativa nella storia giuridica del Regno, con il Codice Corallino che era stato promulgato proprio nell’anno della Rivoluzione francese, il 1789. Allo scopo di meglio disciplinare la pesca del corallo, ma anche per incrementare le entrate per l’erario, il Sovrano, sospinto anche dalla comunità torrese, diede proprio al giurista procidano il compito di redigere questo codice, con due obiettivi sostanziale: limitare le aree nelle quali è consentita la pesca del corallo ed introdurre tutele per i marittimi adibiti a questa attività.

Ora, nella stagione dell’autonomia differenziata, l’ipotesi è quella di regionalizzare i porti e le grandi infrastrutture. Si tratta di un percorso diametralmente opposto alle lezioni della storia ed alle necessità contemporanee. Sono tempi di Piccole Patrie, che smarriscono memoria, consapevolezza e cultura. Al grande procidano, pur autore di una opera sul diritto marittimo di 2411 pagine, sarebbe caduta la penna per lo sconforto.